Piu’ sviluppo, piu’ emigrazione?
E’ comprensibile che ci sorprenda vedere gli africani riversarsi in massa in Europa, i latino-americani negli Stati Uniti e gli asiatici del sud-Est nei paesi del Golfo.
Allo stesso tempo, credo sia giusto ricordarsi che, per molto tempo attraverso il colonialismo, e tuttora attraverso la globalizzazione, ci siamo serviti delle loro risorse naturali ed umane per creare il nostro sviluppo.
Cosa sarebbero le societa’ occidentali senza il te’ e il caffe’, il tantalio per i telefonini e i computer portatili, il petrolio per la benzina e la plastica, il gas per il riscaldamento, la cocaina? Senza le badanti nelle case, gli operai a basso costo nelle fabbriche e i raccoglitori nei campi? Senza i viaggi intercontinentali?
Se il nostro benessere dipende cosi’ tanto dal resto del mondo, verrebbe da dire che è arrivato il momento di assumersi la responsabilita’delle conseguenze: l’emigrazione stessa dimostra che gli altri popoli – per l’una o l’altra ragione (e non e’ questa l’occasione di approfondire) – non sempre hanno guadagnato abbastanza dallo scambio. L’alternativa attuale e’ quella di esportare il nostro sviluppo nelle loro terre, in gioco che dovrebbe essere vantaggioso per entrambe le parti.
Lo facciamo, tra altre cose, impiantando catene alberghiere e stabilimenti manifatturieri.
Al riguardo, mi chiedo: cosa diamo ai paesi piu’ deboli?
Dare un lavoro (il pesce) a chi non ce l’ha e’ cosa lodevole, ma insegnare a pescare e’ molto di piu’. In altre parole, quanto conoscenza e know-how si trasferiscono attraverso questo modello di sviluppo? Credo che, in parte, il processo di apprendimento sia inevitabile (le persone osservano ed elaborano), in parte vada considerato che enti pubblici come l’Unione Europea e le varie ONG integrano l’operato delle aziende private attraverso partenariati per l’educazione e la formazione. D’altronde, in un sistema competitivo, i privati non sono incentivati a sviluppare la concorrenza. E se, inoltre, questa nostra conoscenza non fosse voluta?
Gli stati dello Yucatan e del Chiapas, nel Messico Meridionale, incarnano bene questo tipo di problematiche. Il primo si sta sviluppando attraverso il turismo, il secondo cerca di resistere allo sviluppo in nome di una antica cultura locale.
Io e Jenny non dimenticheremo facilmente la faccia sconsolata di un prete di S.Cristobal de las Casas che parlando del proprio paese concludeva con un mesto “nos falta el know how!” (ci manca il saper fare). Ahime’, come dargli torto: osservando fetide capanne e baracche ai bordi dei siti archeologici Maya, ti viene da dire “ma come e’ possibile? vengo io a sistemartela la casa!”.
Certo, tutto cambia se le persone sono felici della propria condizione: e’ il caso degli indigeni delle foreste del Chiapas, orgogliosi della propria cultura pre-moderna.
Perche’ pensare che debbano “svilupparsi” ad ogni costo? Facendo arrivare televisione e telefonino fino sotto la loro casa si correrebbe il rischio di creare ex-novo un senso di insoddisfazione per la propria condizione, favorendo una migrazione in massa verso citta’ gia’ troppo affollate o addirittura verso l’occidente.
Credo che sia proprio questo uno dei rischi piu’ grandi dell’attuale modello di sviluppo esogeno, imposto dall’esterno attraverso una globalizzazione che – per definizione – deve arrivare dappertutto: il richiamo della modernita’ e’ troppo potente, e lascia poche alternative all’insoddisfazione e alla fuga, soprattutto dei giovani piu’ intraprendenti.
Ed e’ proprio questo che spesso non sappiamo noi dei paesi ospitanti: chi arriva spesso sono persone che si contraddistinguono per intelligenza, idee e spirito di iniziativa. Molti di loro finiranno nell’applicarle in campi sbagliati, a soddisfamento di una domanda di mercato delle popolazioni ospitanti: spaccio di droga, prostituzione, mercato nero. Molti di loro si troveranno in difficolta’ nel conciliare gli insegnamenti tradizionali e quelli della loro religione con la modernita’.
Anche se molto piu’ complessa di quanto descritto (basti pensare ai profughi di guerra e ai criminali in fuga dal proprio paese), credo che la situazione si possa migliorare. Forse il primo passo e’ quello di accettarla per quella che e’, da parte di chi emigra e di chi riceve. Chi sposa la globalizzazione, come tutti noi facciamo piu’ o meno consapevolmente o positivamente, dovrebbe accettarne non solo le opportunita’ ma anche le conseguenze negative.